In Italia la “teoria maggioritaria” è applicata male da 30 anni. Forse perchè è una teoria sbagliata?

(6/8/2021)
Nel nostro Paese la battaglia contro il proporzionale ha assunto significati palingenetici. E si fa un’associazione inscindibile tra modifica del sistema elettorale/istituzionale e cambiamento politico. Il risultato è che ogni banale crisi di governo si trasforma in una crisi di sistema.
La facilità e la frequenza con cui alcuni Paesi erano soliti un tempo adottare nuove Costituzioni, specialmente in America Latina, sono state a lungo considerate come caratteristiche di democrazie fragili e travagliate.

Qualche anno fa era stato persino calcolato che la vita media di una Costituzione latinoamericana era di 16,5 anni, contro i 77 dell’Europa occidentale. A guidare la classifica mondiale per tasso di deperibilità costituzionale era la Repubblica Dominicana, con le sue 32 Costituzioni, dal 1844 al 1994. Record che nel frattempo è stato ulteriormente incrementato, fino alla bellezza di 39 (si deve dire, però, che il dato secondo alcuni andrebbe ridimensionato, a causa dell’uso di promulgare una nuova Costituzione a ogni nuovo emendamento). Seguivano il Venezuela con 26 (l’ultima è del 1999) e l’Ecuador con 20 (2008).

La classifica è di per sé eloquente. Del resto, è naturale che la democrazia non prosperi laddove, storicamente, la semplice vittoria elettorale dell’opposizione non è un passaggio fisiologico, ma assomiglia piuttosto a un cambio di regime, e spesso lo è, con la tendenza del vincitore di turno a ridisegnare il sistema al fine di garantirsi una lunga permanenza al potere.

All’estremo opposto di quella classifica sta la plurisecolare stabilità non solo della Costituzione americana – in vigore dal 1789, pur con un certo grado di flessibilità assicurato dai successivi emendamenti – quanto di tutto quell’insieme di norme, principi e prassi, in materia politico-elettorale, che caratterizzano da sempre gli Stati Uniti, dove sono rimasti praticamente immutati, dall’Ottocento, non solo i due principali partiti e il ruolo del presidente, ma persino la data del voto (stabilita da una legge del 1845).

Con i grandi progressi compiuti dall’America Latina negli ultimi decenni, è ragionevole pensare che buona parte della regione uscirà presto dalla triste classifica delle democrazie più fragili, perché prive del bene supremo di un quadro di regole stabile e condiviso. È invece assai sorprendente, purtroppo, che in quella triste classifica non sia ancora entrata l’Italia.
Se infatti non considerassimo solo le riforme della Costituzione andate in porto, ma anche i tentativi falliti, e più in generale tutti gli sforzi di cambiare le regole del gioco, a cominciare dalla legge elettorale, scopriremmo che la Repubblica Dominicana, a confronto della Repubblica Italiana, è un paradiso di stabilità, prevedibilità e condivisione del quadro normativo.

Da questo punto di vista, l’esperienza del nostro Paese dovrebbe forse essere studiata come un caso particolare di transizione istituzionale post ’89, e certo non dei più riusciti. Il fatto è che il primo duro colpo ai partiti di governo del vecchio sistema è arrivato proprio da un referendum sulla legge elettorale, nel 1991, peraltro su una questione assai circoscritta, per non dire proprio un tecnicismo (la preferenza unica). Così è scattato una sorta di imprinting, un’associazione inscindibile tra referendum, modifica del sistema elettorale/istituzionale e cambiamento politico.

Bisogna inoltre tenere conto del fatto che alla fine di quello stesso anno, la notte di Natale del 1991, la bandiera rossa veniva ammainata dal Cremlino – veniva meno dunque il sistema di rapporti internazionali che aveva giustificato la democrazia bloccata – e appena due mesi dopo partiva l’inchiesta Mani Pulite, che avrebbe portato sul banco degli imputati un’intera classe dirigente. E tutto questo accadeva mentre il Paese affrontava una dura crisi finanziaria e la necessità di drastiche politiche di risanamento per entrare nella moneta unica (la firma del Trattato di Maastricht è del 7 febbraio 1992, dieci giorni prima dell’arresto di Mario Chiesa).

La battaglia contro le degenerazioni del parlamentarismo, conseguenza della democrazia bloccata, e dunque contro il proporzionale, si caricava pertanto di un significato palingenetico e persino morale, in una serie di equazioni che finivano per ricondurre al sistema elettorale l’origine prima della cosiddetta partitocrazia, fonte di ogni corruzione, clientelismo e arretratezza, nonché dell’insostenibile debito pubblico (erano gli anni, tra l’altro, delle grandi privatizzazioni).

Si affermava dunque un movimento d’opinione insieme giustizialista, antistatalista e presidenzialista, che avrebbe visto nei referendum sul sistema elettorale quello che Lenin aveva visto nei Soviet, vale a dire la leva decisiva con cui rovesciare il sistema: dalla «democrazia dei partiti», fondata sul principio di rappresentanza garantito dal sistema proporzionale, alla «democrazia governante», assicurata dal maggioritario (e da un bipolarismo di coalizione visto inizialmente come passaggio intermedio verso il bipartitismo all’americana). Un cambiamento di sistema equiparato di fatto a un cambiamento costituzionale, non per niente raccontato ancora oggi, secondo l’uso francese, come il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.

La forza di questa spinta ideologica è stata tale che in Italia, in appena nove anni, dal 1991 al 2000, si sono celebrati ben cinque referendum sul sistema di voto: uno ogni ventuno mesi. Ventuno mesi di pausa da cui bisognerebbe poi detrarne almeno due di campagna elettorale, ma anche buona parte dei restanti diciannove, impegnati pressoché integralmente nella discussione di altrettanti progetti di riforma per via parlamentare, quasi sempre portati a termine dalla maggioranza uscente allo scopo di impedire la temuta vittoria dell’opposizione (scopo a volte persino dichiarato, come nel celebre caso del “Porcellum”).

Il continuo cambiamento del sistema elettorale restava sempre però all’interno della cornice del bipolarismo di coalizione, secondo il principio cardine della Seconda Repubblica in base al quale all’elettore non poteva essere tolto il diritto di scegliere col voto direttamente il presidente del Consiglio, il governo e la maggioranza. Obiettivo raramente raggiunto (le maggioranze scelte dagli elettori si sono quasi sempre ampiamente riconfigurate nel corso della legislatura), ma anche palesemente incostituzionale. Ragion per cui è invalso l’uso, da parte delle coalizioni, di porre nel simbolo, sulla scheda elettorale, il nome del “candidato premier” (tra virgolette perché, come detto, il nostro ordinamento non prevede la figura del candidato premier, e a essere pignoli nemmeno quella del premier), dando agli elettori l’impressione di un’elezione diretta che in realtà non c’è.

Il risultato è che sin dalla primissima prova, le elezioni del 1994, ogni banalissima crisi di governo si è trasformata in una crisi di sistema, proprio come nelle fragili democrazie di cui sopra, con il capo del governo legittimamente sfiduciato dal Parlamento, e non meno legittimamente rimpiazzato, a gridare al colpo di Stato e al tradimento della volontà degli elettori, in nome di una «costituzione materiale» del bipolarismo maggioritario contrapposta alla Costituzione scritta dell’epoca proporzionale.

Di qui l’esigenza, obiettiva, di ristabilire una corrispondenza tra la lettera della legge, la prassi e la coscienza collettiva. Motivo per cui le forze politiche, quando non erano impegnate a combattersi sulla legge elettorale, lo facevano sulla riforma della Costituzione, dove ogni tentativo di larga intesa, dai tempi della bicamerale D’Alema (1997) a quelli del referendum Renzi (2016), ha sollevato una reazione di rigetto e una mobilitazione sociale con toni da guerra civile che ne ha sempre decretato il fallimento (compreso il tentativo berlusconiano di riforma costituzionale a maggioranza nel 2006, anch’esso sconfitto per via referendaria).

Dal presidenzialismo all’americana al semipresidenzialismo alla francese, dal «premierato forte» al «sindaco d’Italia», dal bipolarismo al bipartitismo, non c’è riforma istituzionale ed elettorale, all’interno della cornice maggioritaria e para-presidenzialista summenzionata, che non sia stata tentata.

Anche qui vi è qualche assonanza con la crisi del comunismo. Da trent’anni, infatti, i fautori della «rivoluzione maggioritaria» ripetono che la loro teoria è infallibile, e che tutti i guai di cui sopra dipendono dal fatto che essa sarebbe stata sempre applicata male, o non abbastanza. Ma una teoria che per trent’anni nessuno sia mai riuscito ad applicare come si deve, evidentemente, non è una buona teoria. E forse prima se ne prende atto, riconoscendo l’errore da persone adulte e accettando di tornare indietro, verso un sistema coerentemente parlamentare e proporzionale, e meglio è.