Urbanetto Cairo e Il Fatto e mezzo

Una delle sagome più inquietanti dei tempi politici in cui stiamo vivendo è l’editore del Corsera Urbano Cairo. Lo stesso che stava portando il Torino in serie B, da tre anni è impegnato in una sfida contro Blackstone.

Il Tribunale Arbitrale dà torto a Cairo nella controversia sul prezzo di vendita a Blackstone della sede storica del Corriere della Sera a Milano: il prezzo è giusto (120 milioni) e non dovrà essere risarcito – Ma ora potrebbe aprirsi la causa civile a New York dove Blackstone chiede 300 milioni a Rcs e altri 300 a Cairo.

Su Cairo e sul Corriere incombe una tegola del genere ma il tragico è che Urbanetto non ha accantonato riserve per far fronte ad una eventualità negativa. La Consob fa finta di niente. Ma i tempi sono strani anche se si pensi seriamente al posizionamento della tv La7 sullo scacchiere politico. L’esempio più eclatante è dato da “Otto e mezzo” della turbofemminista Lilli Gruber che da anni ci tiene a spacciarsi per voce della sinistra.  Su oltre 1200 puntate, dal 2016 al giugno 2021, Otto e mezzo ha dato spazio alle firme de Il Fatto quotidiano per 568 volte; la seconda testata sarebbe il Corriere della Sera, 378 (che in edicola vende 8 volte di più del quotidiano di Travaglio)”.

Il re incontrastato è Travaglio con 184 presenze, ma nella top five ci sono ovviamente anche Scanzi (127) e Padellaro (118). Il giornale preferito di Conte può vantare il doppio delle ospitate del “Corriere”, il cui editore è lo stesso di La7. Inoltre tra i primi dieci ospiti della turbofeminista Gruber non c’è nessuna donna.
Ognuno può avere le opinioni che vuole ma i fatti sono fatti. Scanzi, ad esempio, è quel giornalista che nel 2020 sosteneva che “il Coronavirus non fosse una pandemia, ma un semplice raffreddore. E certo non una malattia mortale”. Poi ha trovato modo di farsi fare il vaccino senza fare la fila. E via discorrendo. Travaglio è quello che dopo aver insolentito Draghi  raffigura la Cartabia come una babbea senza cervello autrice della “schiforma” (come dice Staino, Travaglio è: odio dunque sono); Padellaro è un altro vedovo di Conte, insomma l’ospitalità di Cairo ha creato diversi malumori nel Corsera.

Cairo forse ha pensato che tra la Mediaset di destra e la Rai governativa la sua piccola barchetta potesse fungere da guastatore antipolitico visto che per adesso in Parlamento la maggioranza è grillina. E’ un calcolo miope, uguale a quello di tenersi Belotti quando gli avrebbero dato 100 milioni. Adesso che lo vorrebbe vendere non lo vogliono neppure regalato. Insomma, Cairo è il tipico arricchito che ad un certo punto pensa di avere il tocco magico senza capire che la fortuna passa una volta sola.

(stefano cingolani il foglio 31/5/21) Riuscirà Urbano Cairo a ripagare il fondo americano Blackstone, consolidare il Corriere della Sera, portare in pareggio La7 e, ultimo, ma non per importanza, tenere il Torino in serie A dopo aver evitato per un soffio la retrocessione? Sembra il titolo di un film alla Lina Wertmüller, ma i guai si sono accumulati uno dopo l’altro, con una sequenza impressionante. Non è solo colpa del Covid, anche se la pandemia ha reso tutto più difficile. Questa serie di sfortunati eventi arriva quando l’editore sembrava addirittura pronto a scendere in campo (quello della politica) mentre un coro greco stava per mettere in scena la rappresentazione del nuovo Berlusconi. Che cosa gli manca, in fondo? Ha un giornale e una tv, una squadra di calcio, un gran talento di venditore, una formazione professionale forgiata alla scuola del Cavaliere. In più sente, lui così percettivo, il rimpianto crescente – soprattutto nel suo mondo di uomini d’affari, di moderati, di Nord produttivo – per quella “rivoluzione liberale ma non troppo” che poteva essere e non è stata, per quell’Italia del fare e non del dire che poteva rinascere e non è mai tornata.

Alti lai si levano a destra, ma, incredibile a dirsi, persino a sinistra, se gli acerrimi nemici di una volta adesso invocano l’uomo della terra promessa: chi avrebbe mai pensato a un autodafè come quello di Michele Santoro? Troppo, tutto insieme e tutto in una volta anche per un imprenditore di temperamento, un inflessibile tagliatore di note spese e risanatore di bilanci, un “impresario” nel senso migliore della definizione. Perché i talenti di Cairo vanno analizzati e apprezzati soprattutto adesso, nel momento in cui si trova ad affrontare le più serie difficoltà e molti amici, sostenitori, finanziatori di un tempo gli chiedono conto. Un destino ancor più ingrato nella terra di Fabrizio Maramaldo.

Sono passati cinque anni dall’ardita opas (offerta pubblica di acquisto e scambio azioni) lanciata su Rcs, il gruppo proprietario – tra gli altri – dei quotidiani Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport, oltre che, attraverso la controllata Unidad Editorial, delle testate spagnole El Mundo e Marca. È maggio, il mese delle rose, e l’operazione appare subito ricca di implicazioni sulla scacchiera dei poteri reali. Cairo sfida il blocco storico dell’establishment nordista, egemonizzato dalla Fiat di John Elkann e dalla Mediobanca di Alberto Nagel, vincendo contro la cordata guidata dal finanziere Andrea Bonomi. L’editore rischia quattrini suoi, ma soprattutto è sostenuto da Intesa Sanpaolo, azionista di Rcs e principale creditore. La banca gestita da Carlo Messina non è esattamente fuori dal club dei potenti, ma vuol fare da contrappeso a piazzetta Cuccia (nel 2017 si arriverà alla sfida aperta per il controllo delle Assicurazioni Generali). Al Corsera si rompe il vecchio equilibrio garantito da Giovanni Bazoli (l’uomo che aveva creato Intesa Sanpaolo), proprio mentre la politica italiana viene attraversata e travolta dall’onda nazional-populista: i Vaffa Day di Beppe Grillo aprono il Parlamento come una scatoletta (così diceva il comico e non faceva ridere) mentre la defenestrazione di Umberto Bossi spiana la strada al “capitano” Matteo Salvini.

Sia i grillini sia i leghisti lanciano una offensiva parallela contro “i poteri forti sostenuti dalle cancellerie europee”. Il Corriere e La7 concedono spazio agli “uomini nuovi”, danno voce a quelli che si incoronano “amici del popolo”. La televisione è la nave corsara con i suoi talk show, lo storico quotidiano della borghesia lombarda naviga come uno yacht nella corrente. Si tratta di intercettare lo spirito del tempo e i potenziali lettori-clienti, o di arredare una nuova stanza dei bottoni? Ai posteri l’ardua sentenza.

Certo è che nel frattempo Repubblica, arroccata nel fortino della vecchia sinistra, aveva lasciato aperto il salone delle feste. Oggi il cambio di linea editoriale e collocazione sul mercato, dopo l’acquisizione da parte della Exor di John Elkann, lancia una nuova sfida concorrenziale al quotidiano di via Solferino. L’esperimento Draghi può fare il resto.