Draghi contro i vedovi di Conte ( i Contenuisti)

La situazione politica “estiva” spiegata in breve. Da una parte Draghi e la sua squadra. Contro di lui in guerra aperta i “Vedovi” di Conte/Arcuri, a cominciare dal trio delle meraviglie Travaglio-Conte-Bersani (i Contenuisti), i quali sanno solo dire (come spiega Franco sul Corsera, leggi dopo) che c’è perfetta continuità con il Conte 2 mentre i 5S la proclamano anche con l’1 (non si butta niente, tutto si ricicla).
Se Draghi ha dovuto riaffermare la fedeltà del Paese all’Unione e al Patto, è perché negli anni a trazione populista i tradizionali punti di riferimento erano saltati: Salvini diceva di trovarsi meglio a Mosca piuttosto che a Parigi o Berlino, Di Maio guardava al Venezuela e Conte — da premier del gabinetto gialloverde — firmava l’accordo con la Cina sulla «via della seta» mentre si vantava di essere «parte del popolo, come dice anche Trump». Una doppia linea mai sconfessata, anzi rivendicata nel suo ultimo discorso da presidente del Consiglio (il 21 gennaio). Draghi va per la sua strada d’accordo con Biden (Conte teorizzava l’equivicinanza a Usa e Cina) e vecchi arnesi come DaleMao e Grillo (Di Maio va dove lo porta il vento) vanno con la Cina in un terzomondismo che è attuale quanto l’eskimo. Restiamo in fiduciosa attesa del prossimo sgancio dei 5 Stelle dal governo per avere le mani libere, mentre i Provenzano & i quattro gatti vogliono ancora più aziende di Stato e pertanto economisti di valore come Puglisi e Stagnaro vengono messi al bando con l’epiteto irripetibile di “liberisti”.

(franco debenedetti). Con Autostrade pubbliche; con l’Ilva destinata alla respirazione artificiale con idrogeno verde e con Alitalia tenuta in vita con quella a euri sonanti;  con Finmeccanica relegata a Monfalcone dagli inventori del colbertismo; con Eni dove la transizione energetica avrà falcidiato la fair value delle riserve di petrolio e gas; con Leonardo e Microelectronics saldamente pubbliche: che cosa è rimasto di quell’evento straordinario, la scommessa di suscitare una classe di imprenditori che imparassero a gestire le grandi imprese del primo capitalismo, da cui erano stati esclusi per due generazioni? E che ne sarà di Tim, stretta tra il socio pubblico in conflitto di interessi, Bruxelles sempre più regulatory superpower, e un’opinione pubblica che non le perdona di essere stata la più grande privatizzazione di mercato in tutta Europa?


Oggi le aziende del primo capitalismo, energia, acciaio, trasporti, sono tutte pubbliche, Draghi non può farci nulla. Ora ciò che si deve assolutamente evitare è che capitale pubblico entri nell’azionariato delle imprese del “quarto capitalismo”, le medie industrie che hanno tenuto a galla il nostro paese e da cui oggi ci aspettiamo il recupero di quanto perduto nella pandemia. I passati governi hanno ordinato a Cdp di costituire un fondo “patrimonio dedicato” di 40 miliardi di euro, proprio per investire nel capitale di aziende medio piccole. Quello che ci si attende da Draghi è che annulli quella disposizione: quei 40 miliardi ritornino nella disponibilità della Cassa senza destinazione specifica.

(massimo franco) Ci sono segnali incoraggianti di un ritorno graduale alla normalità. La campagna per le vaccinazioni si sta rivelando un successo, nonostante la confusione e i timori per le varianti e qualche sbavatura di troppo nella comunicazione scientifica. In fondo, l’annuncio del lasciapassare digitale per i vaccinati entro poche settimane è una sorta di scommessa sulla capacità di tenere sotto controllo la pandemia. Quella che non cambia è la propaganda dei partiti sul Covid. Ognuno continua a sventolare le proprie bandiere come se fossimo ancora a gennaio.

Anche sul coronavirus le forze politiche faticano a staccarsi dalle posizioni iniziali: per quanto ormai ridimensionate dai fatti. E questo ne sottolinea ancora di più la strumentalità. Così, il M5 fatica ad ammettere la cesura tra l’azione del governo di Giuseppe Conte e l’attuale sui vaccini: sebbene sia vero il contrario. «Gradualità e rigore ci hanno consentito di arrivare fino a qui. Non certo la propaganda». D’altronde, il governo guidato dal Movimento si è legittimato su quella linea: al punto da insinuare negli avversari il sospetto che l’emergenza fosse una sorta di assicurazione sulla sua durata.

Una parte dei grillini non smette, dunque, di richiamarsi a quell’esperienza: forse anche per sminuire la portata dei risultati ottenuti da Mario Draghi. E questo nonostante l’atteggiamento più aperto dei ministri Cinque Stelle, allineati con Palazzo Chigi. La Lega soffre di una sindrome simmetrica e opposta. Non passa giorno senza che invochi aperture indiscriminate, contatti senza mascherine, fine dei controlli: quasi si trovasse all’opposizione del governo tra M5S e Pd, e non fosse parte della maggioranza.

Quanto al Pd, oscilla in una posizione mediana, tra le spinte di governatori e sindaci dem, che subiscono le pressioni del mondo economico a riaprire, e puntano a distinguersi dal governo nazionale; e la sintonia di alcuni settori con i Cinque Stelle, in polemica con la Lega salviniana. Il risultato è che le forze politiche rischiano di offrire un’immagine stantia; di apparire subalterne fin quasi a sfiorare l’irrilevanza, nel momento in cui le decisioni vengono prese dal governo d’intesa con la comunità scientifica.

Quando il ministro del Lavoro, il dem Andrea Orlando, ammette: «Non possiamo decidere né io né Salvini le limitazioni. Lo dobbiamo fare sulla base dei numeri», dice una verità che prende atto della nuova fase. Ma fa apparire ancora più stucchevoli le uscite dei leader che cercano di piantare le loro bandierine. A guardare bene, è un altro riflesso del passato che si protrae per inerzia. E pone l’ennesimo problema di ricostruzione di un’identità per quando la pandemia, come si spera, sarà solo un terribile ricordo.