Il Pd può essere il partito del Recovery Plan, ma deve superare il bettinismo

(mario lavia) Può reggere il riformismo dall’alto? Cioè, più brutalmente: può Mario Draghi farcela da solo? Adesso siamo in emergenza ma arginata la pandemia la domanda bisognerà porsela.

Partiamo da un dato di fatto: l’impostazione che Mario Draghi ha dato al Piano di ripresa e resilienza è genuinamente riformista, non nel senso ideologico e spesso usato genericamente del termine ma in quello della sostanza. Il cuore della linea del presidente del Consiglio sta infatti nel voler adoperare le riforme strutturali come premessa per garantire la produttività e la ricchezza: il famoso debito buono. Per quanto sia paradossale trattandosi di un Piano di un governo di unità nazionale, è un documento non diciamo di parte ma certo fortemente caratterizzato e dunque destinato nella sua applicazione ad aprire qualche conflitto nella stessa maggioranza, già ampiamente vogliosa di distinzioni al suo interno (sivedano le continue incursioni di Salvini).

Il bidenismo di Draghi non è perciò solo un ripristino ossequioso della tradizionale alleanza atlantica dopo due anni di sovranismo filoputiniano o filocinese ma è anche un preciso punto di riferimento ideale e politico, da ultimo reso evidente dal consenso del presidente del Consiglio italiano alla posizione della Casa Bianca sul tema dei brevetti dei vaccini, anche se il tema è assai controverso.

Ma – ecco la questione politica – se il segno del draghismo è evidentemente riformista e progressista, quali sono le forze politiche, intellettuali, economiche che possono essere considerate di supporto? Chi sono insomma i padri politici della nuova stagione sotto il segno di Mario Draghi che, com’è noto, non dispone di una propria forza di riferimento neppure indirettamente? Nessuno giustamente vuole correre il rischio di trasformare il presidente del Consiglio in capo di una parte, cosa che contrasterebbe con il tipo d mandato affidatogli dal capo dello Stato e dal Parlamento e che causerebbe ipso facto una mina sul governo.

La questione è diversa e l’ha posta con grande finezza Giorgio Tonini, già fra i principali dirigenti e parlamentari del Partito democratico, su Libertaeguale.it: «È possibile realizzare un così vasto e ambizioso programma riformatore, sia pure in un contesto reso favorevole dalle politiche espansive europee, senza un partito o una coalizione riformista che ne faccia la bandiera della sua lotta politica, che su quell’ambizioso programma chieda e ottenga un mandato esplicito dalla maggioranza degli elettori? La storia d’Italia ci dice che la risposta non può che essere negativa».

Il discorso è di respiro e va oltre le baruffe quotidiane in seno alla maggioranza alle quali forse anche la stampa dà troppa importanza: insomma, la politica espansiva di Biden che in Italia si giova dei miliardi europei secondo la logica debito-riforme-ricchezza qui da noi chi la impersonerà? Nell’éra della post-politica nella quale però sono già naufragate le esperienze più antipoltiche (l’immanente fallimento del M5s), qual è il soggetto riformista capace di prendere questa bandiera tra le proprie mani?

Al momento non c’è una forza draghiana, e già si è detto che tatticamente può essere giusto. Il problema è cosa succederà nei prossimi mesi, quando sulla realizzazione concreta del Piano ci sarà da fare una lotta politica, interessi da difendere e altri da attaccare, scelte politiche insomma che non saranno neutre: è molto probabile che sovente la destra sarà contro Draghi, questo è certo, ma chi lo sosterrà?

Il Pd naturaliter dovrebbe essere il partito del Pnrr ma per diventarlo dovrebbe superare il bettinismo malattia infantile del contismo, rompere la subalternità con il partito-Belfagor dell’avvocato del popolo, smetterla di considerare quello di Draghi un governo amico e buttarsi anima e corpo nella difesa delle riforme di sistema disegnate dal Piano, mobilitare tutte le sue forze per una grande campagna di informazione e di sostegno del Piano, contribuire al suo affinamento e alla sua messa a terra.

Ma anche nell’ipotesi che il Pd riuscisse a fare tutte queste cose, a occhio e croce non sarebbe in grado di reggere da solo il peso di una trasformazione così impegnativa quale quella disegnata dal Piano di Draghi, e per svariate ragioni, tra le quali la perdurante e forse strutturale debolezza dei gruppi dirigenti e la tendenza ad avere una certa difficoltà a padroneggiare il merito delle questioni (in parte è una cattiva eredità dei partiti di provenienza).

In vista delle elezioni dunque bisognerà probabilmente creare qualcosa di nuovo, oltre il Pd, che faccia del draghismo la carta d’identità del moderno riformismo che vuole vincere le elezioni. La domanda che a noi pare legittima è se Mario Draghi non debba, in un modo forse originale, guidare questo schieramento riformatore, esattamente come Joe Biden si è posto alla testa delle varie anime che unitariamente compongono il Partito democratico americano, per ricevere un pieno mandato popolare per cambiare il Paese. Sembrerebbe la strada più lineare.