Letta, ovvero tanto valeva tenersi Zingaretti (F. Cundari)

(il foglio) In Italia il problema principale della personalizzazione della politica, tanto nel modo di farla (da parte dei politici) quanto nel modo di raccontarla (da parte dei giornalisti), è che si personalizza molto, e si fa pochissima politica. Il risultato è che la politica è quasi sempre la stessa, e l’unica cosa che cambia sono le persone. E anche quelle fino a un certo punto: più che cambiare, diciamo che si danno il cambio, che è un po’ diverso.

Prendete l’esempio di Enrico Letta. Nel merito, qual è la differenza con Nicola Zingaretti? Quale problema politico è stato risolto dal loro avvicendamento?

Dalle parole del discorso di Letta all’assemblea che lo avrebbe incoronato segretario, praticamente all’unanimità, mi era sembrato di poter cogliere un significativo riposizionamento del Pd su due questioni non marginali, e ovviamente legate tra loro: il rapporto con il governo Draghi e quello con i cinquestelle (o qualunque cosa Giuseppe Conte finirà per guidare, ammesso e non concesso che esca vivo dal ginepraio grillino).

Poteva piacere o non piacere, ma era una spiegazione logica. Essendo Zingaretti il leader che aveva tentato in ogni modo di difendere il governo Conte e il progetto di alleanza politica Pd-M5s che aveva voluto costruirci attorno, una volta cambiato il governo e saltato quell’equilibrio, sembrava logico, cioè nella logica politica delle cose, che saltasse anche Zingaretti.

A rafforzare questa interpretazione stava anche la tempistica delle dimissioni, pochi giorni dopo la comparsa di un sondaggio che dava i cinquestelle a guida Conte sopra il Pd, con il Pd al 14 per cento. Sondaggio che sembrava dimostrare quello che il buon senso avrebbe dovuto suggerire da molto prima, e cioè che passare il tempo a difendere a spada tratta Conte come capo del governo e come punto di riferimento di tutti i progressisti, da parte del Pd, produceva su una parte consistente dell’elettorato democratico il seguente effetto: che chi non era d’accordo, non essendo d’accordo, non lo votava più; e chi era d’accordo, essendo d’accordo, votava Conte.

A ulteriore conferma di una simile ricostruzione dei fatti arrivavano poi le parole di Letta, quando in assemblea sottolineava di considerare il governo Draghi il governo del Pd (dunque non la meno peggiore delle alternative disponibili, dopo l’irresponsabile e disgraziatissima decisione di mettere in crisi il meraviglioso esecutivo precedente), ma ancor più quando precisava di volere prima ricostruire il centrosinistra in quanto tale, per poi avviare una discussione dall’esito non scontato con il nuovo soggetto politico guidato da Conte (o quel che sarebbe venuto fuori dal ginepraio di cui sopra). Il guaio è che una simile strategia è durata giusto il tempo di prendere i voti in assemblea.

La sera stessa, ospite di Fabio Fazio, Letta ha dichiarato infatti a sorpresa di puntare a una legge elettorale maggioritaria, preferibilmente sul Mattarellum, con tanti saluti alla legge proporzionale che fino al giorno prima il Pd aveva definito indispensabile – dopo il taglio dei parlamentari – per evitare addirittura pericoli per la democrazia e l’equilibrio dei poteri.

Pochi giorni dopo, nell’ambito della classica trafila di incontri che sempre caratterizza l’estenuante costruzione di una coalizione maggioritaria, croce e supplizio del centrosinistra dal 1994 a oggi, il neosegretario del Pd ha incontrato Conte, formalmente a capo di nulla, privato cittadino senz’altro ruolo pubblico che quello di professore in aspettativa, riservandogli onori e promesse di intesa assai più impegnative di quelle riservate a ogni altro alleato.

Infine, e siamo agli ultimissimi giorni, Letta ha spiegato che a decidere la leadership della coalizione (e dunque, come impropriamente ci siamo abituati a dire, la candidatura alla presidenza del Consiglio), saranno gli elettori. In pratica: il partito che prenderà più voti esprimerà anche il capo del governo. Prefigurando così un centrosinistra di cui Conte e i cinquestelle saranno parte organica, costitutiva, a pari titolo di ogni altra forza politica. Un centrosinistra che dunque assumerebbe tutta intera l’eredità dello stesso governo gialloverde e delle sue politiche, da loro mai rinnegate, come del resto ha già fatto il Pd durante il secondo governo Conte, fin troppo diligentemente.

In questo quadro, non deve stupire che molti dirigenti del Partito democratico, compresi illustri membri della segreteria, continuino ad andare in televisione per difendere il governo Conte assai più che il governo Draghi. Ultimo esempio, per citarne uno solo: Sandra Zampa che martedì a Otto e mezzo, a domanda sui problemi dell’esecutivo con le vaccinazioni, risponde che c’è stato un «errore di comunicazione» nel parlare di «cambio di passo», mentre il problema è sempre e solo che ci sono poche dosi, motivo per cui il passo non cambia e tutto quello che può fare Draghi è alzare il telefono per protestare, «né più né meno come avrebbe fatto Conte» (piccola nota per i lettori più distratti: a usare l’espressione «cambio di passo» in relazione ai vaccini è stato proprio Mario Draghi, nel solenne discorso pronunciato a Fiumicino il 12 marzo).

Ma se le cose stanno così, torniamo alla domanda da cui eravamo partiti: qual è la differenza di fondo tra il Pd di Letta e quello di Zingaretti? Solo una, a quanto pare, e a tutto vantaggio di Zingaretti: che almeno ufficialmente la sua linea prevedeva una legge elettorale proporzionale, in cui ciascun partito sarebbe andato con il proprio simbolo, il proprio programma e i propri candidati, e a decidere eventuali alleanze, di fatto, sarebbero stati gli elettori.

Sì, perché le cose stanno esattamente al contrario di come ve le raccontano: è con il proporzionale che le alleanze, almeno indirettamente, le decide l’elettore con il voto, mentre con il maggioritario gli si presentano belle e pronte, tanto che partiti con lo zero virgola acquistano sul governo potere di vita e di morte (quegli stessi partiti che con il proporzionale non supererebbero la soglia di sbarramento e non entrerebbero nemmeno in parlamento).

E se adesso tutto questo discorso sulla legge elettorale vi pare una divagazione di secondaria importanza, cari elettori del Pd, aspettate di trovarvi Luigi Di Maio, Laura Castelli o magari anche Rocco Casalino candidati nel vostro collegio, sotto le insegne del centrosinistra, e poi ne riparliamo.