Contro il bipopulismo/Le prospettive politiche del governo Draghi e l’inadeguatezza dei partiti

(christian rocca, linkiesta) Abbiamo un presidente del Consiglio super figo che solo a pronunciarne il nome ci fa risparmiare miliardi sui mercati finanziari e che ha dovuto ricominciare da zero la campagna di vaccinazione e la scrittura del Recovery plan, a causa delle tragiche incapacità di chi lo ha preceduto. Certo, Mario Draghi farebbe bene anche a commissariare la Lombardia dei baluba leghisti, a centralizzare le operazioni di vaccinazione, a schierare l’esercito per fare le punturine quartiere per quartiere e a radiare i medici no vax che infettano i pazienti anziani, ma non si può volere tutto e subito, abituati al niente mischiato a nulla di Conte e Casalino a Palazzo Chigi.

Ma oltre l’emergenza e i piani per uscirne, c’è anche una questione politica: Mario Draghi è sostenuto da una maggioranza che storce il naso alle spalle del premier che gli ha tolto il pallone di giuoco. I tre partiti principali non vedono l’ora di spedirlo al Quirinale, a febbraio 2022, in modo da liberarsi dal commissariamento draghista e tornare appassionatamente al recente passato bipopulista (alleanza strategica versus pieni poteri, uno sballo). I partiti minori della maggioranza sono piccoli e litigiosi, ma soprattutto collettivamente incapaci di intestarsi la paternità e di presentarsi uniti come quelli dell’area Draghi.

I retroscenisti a questo punto spiegano che tutto dipende dalla legge elettorale, proporzionale o maggioritaria, un mantra che continua ininterrottamente dal 1992, e in parte hanno anche ragione perché ovviamente bisogna conoscere le regole con cui si va a votare, ma hanno anche molto torto perché la legge elettorale in fondo è solo una formalità tecnica che non può fermare un’alternativa politica al bipopulismo perfetto italiano, a patto che questa alternativa ovviamente ci sia.

Il gioco della Lega è chiaro: sopportare il più possibile l’ennesimo smacco subìto, far dimenticare i disastri lumbard, liberarsi di Draghi nel 2022 e andare alle elezioni anticipate. Il gioco dei Cinquestelle è più simile a quello di un reality show tipo Isola dei famosi: cercare di sopravvivere, tra nomination e lotta per bande. Il Pd è il solito Pd: un’agenzia interinale che somministra personale di governo alle istituzioni, ancora vittima della sindrome di Stoccolma Appula e molto forte nel collegio di Propaganda Live.

I riformisti e i liberaldemocratici – oltre a smetterla di misurarsi l’ego o, al contrario, di avere paura di perdere il posticino – dovrebbero cominciare a darsi una mossa sul serio, a mostrarsi come più draghisti di Draghi, a far circolare idee nuove e a proporre iniziative politiche da persone adulte, cioè dovrebbero cominciare a fare esattamente l’opposto di quello che stanno facendo la Lega e il Pd, figuriamoci i Cinquestelle.

Dovrebbero, per esempio, pretendere un candidato “draghiano” alle suppletive di Siena; fondere i gruppi parlamentari; proporre una riforma istituzionale (ma solo al termine del successo della campagna di vaccinazione); imporre la candidatura di Carlo Calenda a sindaco di Roma; fermare in tempo la tentazione dei nostalgici del bipopulismo di mandare Draghi al Quirinale e interrompere la legislatura; aiutare il Pd a liberarsi dell’ideologia della ditta e associati; mostrarsi credibili agli occhi degli elettori non sovranisti del centrodestra; e farsi sentire anche a Milano, la città più riformista e meno grillina d’Italia, che non può essere consegnata, peraltro fuori tempo massimo, all’accordo strategico tra Pd e babbeiacinquestelle.

Insomma, i riformisti e i liberaldemocratici dovrebbero fare politica, possibilmente lontani da Twitter. Per tutto il resto c’è Mario Draghi, sperando che si tenga pronto a intervenire nel caso costoro sprecassero l’occasione di far uscire l’Italia dalla finta alternativa tra due opposti populismi.