Una storia fuori del comune di Gianni Speranza. Recensione

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” —  Italo Calvino, Le città invisibili

(1/5/21) Mentre stavo leggendo il libro di Gianni Speranza (Una storia fuori dal Comune, Rubbettino, 2021) mi ha molto interessato un articolo di Boeri e Perotti su Repubblica. I due economisti scrivono “A leggere il Pnnr sembrerebbe che tutti i problemi della Pubblica amministrazione siano nella mancata digitalizzazione. La vera riforma della PA consiste nello scegliere bene i suoi dirigenti, fissare per le amministrazioni nel loro complesso obiettivi verificabili, e reclutare persone competenti”.

Spero si colga alla fine che cosa unisce questo libro, per me appassionante e anche drammatico, con un articolo in cui si riflette, sulla questione politica più importante dell’amministrazione pubblica italiana: il “saper scegliere le persone competenti”.

Alla base del saggio c’è quella che Speranza definisce la “solitudine del sindaco”, “la sensazione di inadeguatezza ad affrontare le catastrofi che ti cadono addosso”. Ogni sindaco italiano coraggioso e generoso come Gianni è solo, “all’inizio, nei periodi peggiori e sicuramente dopo la conclusione”, perchè, egli scrive, “non ha potere”. Quel che ha “potuto” e saputo fare, “in dieci anni lunghi e brevi”, Speranza lo descrive nei dettagli. Opere pubbliche, progetti, iniziative, legami intessuti con persone straordinarie (i ricordi struggenti di De Sena e Catricalà, della Borsellino, di Saffioti e Rosy De Sensi), ma soprattutto “stare sempre in mezzo alle persone e ascoltare quello che avevano da dirci”.

Questo libro ha un titolo che non è un gioco di parole ma racconta per davvero una storia che tutti i lametini, in qualsiasi posto risiedano, dovrebbero conoscere e tramandare ai propri figli. Una esperienza civica e “amministrativa”, che va dal 2005 al 2015, di un professore di storia che a 51 anni vince a sorpresa le elezioni comunali e riesce a portare a termine due mandati nonostante tutto e tutti, malgrado i consiglieri comunali e la politica e la mafia tentino più volte di mandarlo a casa. Alla fine comunque non saranno i nemici ma un amico a interrompergli la carriera politica.

Un racconto che se non fosse vero (solo il dossier sull’aeroporto lo trovo reticente) e dettagliato e scritto nella maniera più chiara ed esaustiva possibile si potrebbe scambiare per un romanzo, invece è autobiografia con spunti di memoir. Un primo cittadino senza una macchina amministrativa funzionante e senza maggioranza, al quale i lametini si affidano e che sarà ricordato per sempre per la sua passione, il coraggio e l’astuzia quasi machiavellica del grande politico capace di rimanere in sella pur impallinato da destra e da sinistra.

Ecco, il ritratto dei lametini, del ceto politico e della intera nostra società che vien fuori dal libro è non solo convincente ma direi da film di Damiano Damiani (si veda Il giorno della civetta, tratto da Sciascia).

Da oggi per capire cosa sia la Lamezia reale, oltre alle sentenze della magistratura abbiamo il racconto dell’esperienza “amministrativa” di Gianni Speranza.  Come ho scritto ormai anni fa per capire i lametini occorre capire il dilemma del prigioniero, uno dei problemi più famosi della teoria dei giochi: ogni lametino non si riconosce in una comunità ma si “affida” oltre che a S. Antonio ad un suo protettore forestiero che gli dice cosa sia meglio per lui. Gianni lo chiama “individualismo”, io l’ho chiamato “egotismo”, ma la sostanza è che ogni cittadino, preferendo a quello collettivo il rischio personale, si fa prigioniero da solo, consegnandosi ai gruppi mafiosi e alle consorterie politiche. Di tanto in tanto noi prigionieri tentiamo di evadere (lo abbiamo fatto per venti lunghi anni con sindaci di sinistra) perchè se l’uomo non arriva al bordo del precipizio non gli cresceranno le ali sulla schiena. Le poche volte poi in cui i lametini hanno protestato insieme, la sinistra e la destra lo hanno pure accusato di campanilismo.

I due dossier per me più importanti del libro sono quelli sul dissesto e quello sui rom. Quest’ultimo è un problema (un boomerang creato dalla politica miope) che la città ha dagli anni ’60 e che nessuno, sindaci, procura, prefetti, governo, sa come risolvere come se fosse la congettura di Riemann. A cosa serve la politica o l’amministrazione, se ogni problema sociale diventa impossibile e tutto il resto si sbriciola in favori minuti e personali?  

“Nelle lunghissime giornate succedeva di tutto, venivano in quelle stanze tantissime persone con orari assurdi e bisogni disparati”.

Un sindaco di Lamezia che riuscirà con una breccia di Porta Pia a risolvere problemi come questo dopo settanta anni, avrà il suo busto accanto ai Santi Pietro e  Paolo? L’altro problema irrisolvibile, evidenziato dal dissesto, è l’incapacità di far pagare i tributi comunali. Come dicevo già nel 1993 a Doris Lo Moro se un Comune non sa chi sono i suoi cittadini perchè ha una anagrafe non aggiornata e gli uffici non comunicano digitalmente tra di loro le cartelle puoi inviarle ma ti tornano indietro (indirizzo sconosciuto). Nessuno dunque vuole un data-base dei cittadini e delle imprese, nessuno vuole una famiglia rom nella sua via, così come nessuno in Calabria vuole nel suo territorio una discarica o un termovalorizzatore. Infatti i rifiuti li dovremo mandare in Olanda come fa già il rivoluzionario De Magistris a Napoli. Ecco la potenza del libro, la sua capacità di farci riflettere su quello che siamo (diventati) perchè le questioni irrisolte da Gianni sono ancora i macigni che ingombrano le strade, le nostre spade di Damocle.

Cosa rimane oggi del Pci in cui Gianni è cresciuto? Lo dico con le parole di Fabrizio Rondolino: “Nulla. Non rimane, ovviamente, l’ideologia. Non rimane il riformismo. Non rimane tutto il senso di comunità e di appartenenza a una storia che è polverizzato, anzi disintegrato da un ceto politico che si fa la guerra continuamente, che si scinde e si riscinde – adesso sono tre o quattro gli eredi del Pci, più altre sigle quasi folkloristiche. È completamente perso il senso della storia a cui i singoli pensavano di partecipare, quasi convinti di essere al servizio di un progetto più grande. E sono venuti meno anche il rigore e la serietà, cioè l’idea che, prima di parlare, si impara e si studia. Quindi, mi dispiace, non è rimasto niente”.

Finito tutto, non ci resta che saper pesare bene le persone. Infatti che cosa ha posto fine alla carriera politica di Gianni cominciata a Cosenza come segretario provinciale del Pci se non il tradimento di un suo vecchio amico, Oliverio, oltre che di altri suoi amici vendoliani?

Le persone per me contano più delle idee e dei partiti. Anche nella pubblica amministrazione, come ricordavano all’inizio Boeri e Perotti, i dirigenti vanno saputi scegliere. Per esempio, quando Speranza fece vicesindaco Francesco Cicione, amicissimo di Agazio Loiero, seppe scegliere. Con la persona giusta cambiò la politica: il rapporto di Lamezia con il presidente che ci tolse l’Asl divenne fruttuoso. Fare il sindaco di Lamezia non lo auguro a nessuno, ma, fateci caso, tutti quelli di sinistra che nel 2021 predicano “contro l’uomo solo al comando” quando è toccato a loro hanno provato la solitudine pur giurando sempre di esser circondati da giovani, da tanta solidarietà, da grandi amici. Eppure hanno capito che chi deve firmare e decidere è sempre solo, gli amici al massimo ti consigliano e la notte dormono tranquilli.