Alessandro de Nicola/Letta e il destino dei liberali

(Repubblica) Nel grande fermento della politica italiana la novità più rilevante degli ultimi giorni è l’ascesa di Enrico Letta alla segreteria del Pd.

Marco Bentivogli, su Repubblica del 16 marzo, ha ammonito il neosegretario, il quale ha un profilo più “moderato” del predecessore, che il riformismo non è solo metodo (oggi nessuno è rivoluzionario) ma sostanza ed elenca una serie di temi, dal lavoro al corporativismo italico, che non si possono eludere.

Nel frattempo, si è costituito un comitato scientifico presieduto da Carlo Cottarelli (il quale assicura che la sua non è una “salita in politica”), promosso da partiti e associazioni del mondo liberaldemocratico, Azione, +Europa, Pri, Alleanza Liberaldemocratica, I Liberali, aperto anche ad altri e che vuole fornire idee per un “Programma per l’Italia”.

Siamo dunque a una svolta per quell’area liberale (da non confondere col “centrismo”) che nei sondaggi si aggira tra l’8 e il 9% (includendo Italia Viva)?

Il primo punto da chiarire è: esiste una simile area culturale e politica oppure, come ormai succede per i cattolici, non c’è più un partito di riferimento e i liberaldemocratici possono spargersi in tutti i partiti? La risposta non è definitiva, ma certamente la cultura liberaldemocratica e laica costituisce un tratto distintivo della storia di questo Paese. Senza risalire a Cavour, Cattaneo e Mazzini, il filo rosso unisce – pur nelle diversità – Giolitti, Gobetti, Amendola e nel dopoguerra Einaudi, La Malfa, Malagodi e Spadolini (includendo anche il mutevole ma notevole Pannella), la gran parte di loro uomini di pensiero e azione.

È un filone di pensiero e prassi politica che ha caratteristiche precise: europeismo e atlantismo, laicità dello Stato, diritti civili, garantismo e legalità. Riconosce il valore della società aperta e dell’economia di mercato e, sebbene il tema dei confini dell’intervento statale non trovi tutti concordi, sicuramente il rigore nei conti pubblici e la consapevolezza dei pericoli dell’intromissione della politica nelle imprese mietono unanime consenso.

In Europa questo filone si ritrova nel gruppo di Renew Europe le cui correnti di pensiero sono benissimo riassunte in Olanda dove convivono i liberali classici di Rutte con i liberal-progressisti di D66, i due trionfatori delle elezioni del 17 marzo.

E nel tempo presente cosa dovrebbero fare questi eredi del Risorgimento? La mia opinione è che dovrebbero unirsi ed eliminare lo strabismo. Bisogna togliere la sensazione che i liberali siano cespugli del Pd cui si avvicinano o si allontanano a seconda del segretario più o meno socialisteggiante alla guida del Nazareno. Scelta civica ha imparato a sue spese l’ambiguità, finendo inghiottita in un boccone da Renzi (che oggi vorrebbe a sua volta evitare di essere deglutito), non essendo tenuta insieme da ideali condivisi ma da una generica stima per il buongoverno di Mario Monti.

L’elettorato di opinione cui si rivolgono i liberaldemocratici non si aspetta né favori clientelari né promesse roboanti: però vuole programmi liberali e concreti, non tatticismi.

Macron, pur con le sue contraddizioni e con l’aiuto della fortuna, ha fatto da solo: veni, vidi, vici. E poiché non siamo in Olanda, lo spazio elettorale, per ora, è troppo piccolo per molteplici attori e pertanto gli ammiratori di Hayek devono di buon grado lavorare con quelli di Dahrendorf e viceversa. Il Comitato Cottarelli può dare un ottimo contributo: un programma chiaro, con parole d’ordine come opportunità e merito, per presentarsi agli elettori con una fisionomia nuova legata a salde radici. Vedremo: è una chance che se sprecata forse non tornerà presto.