Polito e Fubini sul Corsera spiegano quel che Conte non vuole si sappia

(Antonio Polito) La prima domanda è: perché così tardi? È dalla sera del 6 dicembre dello scorso anno, quando Conte portò in Consiglio dei ministri la prima bozza del Recovery plan, che la crisi era virtualmente aperta. Tutti sapevano che la maggioranza non condivideva né merito né metodo del più importante documento di governo del decennio, destinato a decidere che cosa potrà e vorrà essere l’Italia degli anni Venti. Ci fu chi dissentì platealmente, ovverosia Renzi, e chi più sotterraneamente, cioè Zingaretti e il Pd. La «cabina di regia», con sei super manager e trecento tecnici, sembrò loro quasi una beffa. Oggi non se ne parla più, ma ancora non sappiamo che cosa la sostituirà, chi e come gestirà duecento e passa miliardi di euro. Da allora è stato tutto un girarci intorno. Ieri, quasi due mesi dopo quella data, la crisi di governo riparte da lì: ricontrattare un accordo di maggioranza su emergenza e ricostruzione. Intanto non solo si è perso tempo, ma si sono anche esacerbati gli animi a furia di giochi di palazzo, campagne-acquisti in Parlamento, esibizioni di muscoli e testosterone. E tutti ora ci chiediamo: che cosa ne verrà fuori?

(Federico Fubini) Il tratto più rivelatore di questa strana crisi di governo non riguarda ciò di cui i politici parlano. Non ha niente a che fare con le formule di alleanze possibili, i giochi di posizione e la caccia ai voti in Parlamento. Riguarda ciò che i politici tacciono. Quello che non dicono in questa crisi di governo.

Perché resta sepolta sotto quei sette materassi, nel complesso, l’intera agenda economica dell’Italia e non solo quella dei prossimi mesi. Si sta evitando di parlare anche delle tante decisioni da prendere tra pochi giorni o tra poche settimane, le cui conseguenze si faranno sentire per molto tempo.

Il silenzio più rumoroso riguarda la questione stessa sulla quale la crisi si è innescata. In termini formali, riguarda il capitolo tre della bozza del piano nazionale su Next Generation EU: quello sulla cosiddetta «governance» o, più brutalmente, il luogo in cui risiede il potere di distribuire e controllare i 209 miliardi del Recovery fund. Quel capitolo tre del piano italiano resta vuoto. Sul quel punto il documento del Consiglio dei ministri mandato al Parlamento è in bianco. Eppure non se ne parla, come se il tema non esistesse.

Lo stesso Giuseppe Conte ha continuato a osservare in proposito uno scrupoloso silenzio, quando la scorsa settimana ha chiesto alle Camere la fiducia per il suo governo cercando di delinearne un orizzonte. L’omissione non poteva passare inosservata né a Bruxelles, né al Quirinale.

Non poteva perché Matteo Renzi ha tratto l’innesco della crisi proprio dalla notte in cui il Consiglio dei ministri aveva approvato il progetto di una nuova struttura, controllata da Palazzo Chigi, alla quale dovevano andare i poteri di gestione sui 209 miliardi. Per il fondatore di Italia viva forse quello è stato un pretesto, ma non è stato solo lui a trovare fuori luogo il tentativo del premier di accentrare il controllo dei fondi.

Il silenzio di Conte ora fa sospettare che su questo snodo nevralgico non esista alcun accordo – neanche in una maggioranza in qualche modo ristrutturata – e che il presidente del Consiglio continui a pensare di poter gestire il Recovery fund in prima persona. Di certo il tempo passa e, mentre il sistema politico resta ripiegato su sé stesso, si perdono settimane preziose senza alcuna discussione trasparente sugli assetti essenziali del piano italiano: chi lo gestisce, a quali riforme esattamente sarà associato, sulla base di quali piani finanziari e di quali obiettivi? In Italia si dà per scontato che i bonifici da Bruxelles alla fine arrivino, ma si sorvola sui presupposti perché questo accada.

Per risolvere realmente la crisi di governo – non solo nei numeri in Senato – l’intero sistema politico avrebbe bisogno di fare chiarezza su questi punti più che sulla conta dei transfughi. E avrebbe bisogno di prendere atto che la Commissione europea adesso chiede che, nel Recovery plan, i governi presentino un piano plausibile di finanza pubblica. Questa condizione in precedenza non esisteva. Come ha scritto Francesca Basso sul Corriere del 22 gennaio, è stata inserita la scorsa settimana e riflette una sfiducia crescente proprio su quanto sta accadendo in Italia. Non è una nuova ondata di austerità. Le regole di bilancio non stanno tornando in vigore, nessuno pretende che l’Italia riduca il deficit nel 2021. Ma, se vuole i soldi del Recovery, ora il governo dovrà spiegare come pensa di far scendere il debito nei prossimi anni.

E qui veniamo all’altro grande silenzio di questa strana crisi. Oggi i ministri Roberto Gualtieri (Economia, Pd), Nunzia Catalfo (Lavoro, M5S) e Stefano Patuanelli (Sviluppo, M5S) dovrebbero incontrarsi riservatamente per provare a sbrogliare un altro nodo: il blocco dei licenziamenti va prolungato oltre il 31 marzo? In un convegno di Prometeia lo scorso dicembre Marco Leonardi, consigliere di Gualtieri, ha stimato che fino ad oggi potrebbe essersi accumulato nelle imprese italiane un arretrato di 200-250 mila licenziamenti economici rimasti in freezer. Il Movimento 5 Stelle e i sindacati vorrebbero tenere chiuso quel freezer ancora fino all’estate – almeno – usando una parte del decreto di spesa in arrivo per offrire cassa integrazione straordinaria a tutti, indiscriminatamente, ancora per molti mesi. Persino alcuni settori industriali sembrano tentati dall’idea di accettare un blocco dei licenziamenti più lungo, purché la cassa integrazione da Covid continui a mantenere integralmente i loro dipendenti: che paghi lo Stato a debito, e il resto si vedrà.

In realtà lo stesso Leonardi ha mostrato come alcuni settori restino in crisi – il turismo su tutti – ma parte della manifattura, il terziario avanzato, l’agricoltura o le società di rete siano tornate alla normalità. La risposta razionale sarebbe riservare il blocco dei licenziamenti e i sussidi straordinari solo alla parte davvero sofferente dell’economia. Ma c’è ben poco di razionale in questa strana crisi in cui – lontano dai riflettori – l’assalto alla diligenza di quei 32 miliardi di denaro pubblico da spendere continua anche con il governo sull’orlo del precipizio. (Federico Fubini dal Corsera)