Quel duello in musica tra Mogol e Battisti nel 1985-1986

Nel 1985 il cantautore Mango (1954-2014) nell’album “Australia” pubblica il brano “La massa indistinguibile”, scritto dal paroliere Giulio Rapetti in arte Mogol.  

Guardati un po’ nello specchio
Non trovi che non sembri neanche tu
Purtroppo sei quasi un vecchio
Nell’alcool tu affoghi sempre più
Eppure tu eri un divo
Sublime come un Dio
Tu non perdevi mai
E non pregavi

Cos’è successo al tuo successo
Dove hai sbagliato, presuntuoso uomo
Se tu sei eterno questo è l’inferno
Non sai neanche a chi chieder perdono
Eppure tu eri un divo
Splendente sopra noi
Tu non perdevi mai
E non pregavi

Noi, la massa indistinguibile
Che ti ha eletto un attimo su noi
Su noi, la massa indistinguibile
Che ti ha già dimenticato ormai

Cos’è successo al tuo successo
Era un miraggio, un messaggio vuoto
Tu ci hai creduto ed hai perduto
L’autoritratto adesso è scolorito…

Nel 1986 Lucio Battisti (1943-1998) risponde a Mogol con il brano “Don Giovanni” contenuto nell’album omonimo.

Non penso quindi tu sei
Questo mi conquista
L’artista non sono io
Sono il suo fumista
Son santo, mi illumino
Ho tanto di stimmate
Segna e depenna Ben-Hur
Sono Don Giovanni
Rivesto quello che vuoi
Son l’attaccapanni
Poi penso che t’amo
No anzi che strazio
Che ozio nella tournee
Di mai più tornare
Nell’intronata routine
Del cantar leggero
L’amore sul serio
E scrivi
Che non esisto quaggiù
Che sono
L’inganno
Sinceramente non tuo
(Sinceramente non tuo)
Qui Don Giovanni ma tu
Dimmi chi ti paga

Che cosa è successo e qual è il significato di questo duello in musica tra il Paroliere e l’Artista che dal 1965 al 1980 hanno lavorato insieme ottenendo in Italia un successo commerciale strepitoso?

Qui Don Giovanni ma tu
Dimmi chi ti paga

Prima di rispondere è utile ricordare il metodo di lavoro della coppia. Battisti portava delle musiche e tra esse Mogol sceglieva quelle da far diventare canzone. In realtà quindi Mogol fa parlare le musiche del socio raccontando di sè. Ma il guaio è che ad un certo punto Battisti canta lui le sue canzoni invece di affidarle ad altri e dunque il mondo espresso da Mogol diviene il mondo di Battisti. La domanda cruciale è sempre stata: ma se Battisti invece di Mogol avesse avuto un altro paroliere, avrebbe avuto lo stesso successo? Certo che sì, non ci sono dubbi.

Il testo che Mogol affida a Mango è del tutto comprensibile perchè si rivolge al “divo” cioè a Battisti “presuntuoso uomo”, e gli chiede cos’è successo al suo successo. In realtà questa domanda oggi Mogol dovrebbe rivolgerla a sè stesso, se dopo Battisti quello che si considera il Re Mida della canzone non ha beatificato più nessuno. Ha provato addirittura con Gigi D’Alessio, a parte la sfortuna della malattia di Gianni Bella col quale nel 1999 aveva scritto per Celentano “L’arcobaleno”, sostenendo che aveva visto Battisti in sogno.

Mi manchi tanto amico caro, davvero
E tante cose son rimaste da dire
Ascolta sempre e solo musica vera
E cerca sempre se puoi di capire

La canzone di Battisti-Panella inizia capovolgendo Cartesio (cogito, ergo sum) per dire a Mogol: io non penso e così “io non esisto quaggiù” perchè tu sei l’Artista, lasciando a me il compito del fumista che ricopre la sostanza (ricopre quello che vuoi); oppure sono un semplice attaccapanni dove tu lasci e appendi quello che vuoi. Ho le stimmate del successo, e splendo (m’illumino) con le tue liriche. Ho anche pensato di amare le canzonette e il successo commerciale  ma poi questo amore è diventato uno strazio, non ne posso più sia delle tournee sia della routine del cantar leggero, io ora canto l’amore sul serio non quello delle canzonette.  Adesso smetto di essere Ben-Hur e divento Don Giovanni. Ben Hur era un ricco ebreo che, al tempo della dominazione romana in Palestina, venne adottato da un patrizio romano cui aveva salvato la vita. Tornato in patria, recuperò i beni che gli erano stati tolti e, convertitosi al cristianesimo, li impiegò a favore della nuova religione.

«Nel 1979 Battisti non si accontenta del successo, forse non lo ha mai voluto. Lui è diverso e lo sa. Lui è veramente diverso. È disposto a tutto. Quello che Battisti vuole è andare avanti, ricercare, trasformarsi, perdersi e ritrovarsi. Come un Proust che si seppellisce in casa per completare la Recherche e rinnega sé stesso a favore dell’opera, così Battisti rinnega la propria immagine pubblica, azzera sé stesso definitivamente per diventare autore totale» (Massimo Villivà). Ha già smesso da qualche anno di apparire in pubblico. Ora cesserà totalmente di cercare di favorirlo. Non concederà più interviste. L’ultima è del 18 maggio 1979, a Giorgio Fieschi per la Radio Svizzera.

Nel 1979, insomma, Battisti decide di proseguire da solo, senza ulteriori interferenze, senza i media, il pubblico, Sanremo, le classifiche, i tormentoni, senza tutto ciò che lo aveva accompagnato sin dai tempi di “Per una lira”. E dopo aver pubblicato nel 1982 “E Già”, primo lavoro del post-Mogol, Lucio incontra il poeta ermetico romano Pasquale Panella, che stava collaborando con il suo amico Adriano Pappalardo

In questo secondo periodo Battisti intende dimostrare che è in grado di musicare qualsiasi testo. Nascono così quelli che sono stati definiti i “dischi bianchi”, a causa del pallore delle copertine, minimali, cerebrali ed astruse come la musica che regalano agli ascoltatori. Panella svolge un ruolo cardine in quanto autore di tutti i testi dei dischi bianchi, a partire da “Don Giovanni”, primo prodotto del duo. “Don Giovanni” richiede quattro anni di incessante lavoro, ma si dimostra un capolavoro.  Dopo l’album “E Già” scritto insieme con la moglie Grazia Letizia Veronese (che firma come Velezia), il primo dei cinque bianchi non è bianco, in realtà, ma di un marroncino beige chiarissimo.

In copertina un attaccapanni alquanto stilizzato da cui pende una sciarpa d’artista, di quelle lunghissime alla Fellini.


Pasquale Panella ha spiegato il suo ruolo di paroliere in un’intervista concessa a Federico Vacalebre:

“Il difetto della canzone e’ quello di avere un senso. Quando sarà insensata sarà vera poesia (…) a me piace portare la canzone all’estenuazione, cercarne il limite estremo, dare alle parole e al loro susseguirsi una strana configurazione. Mettere a rischio le parole, provare a confonderle, prima che loro e la noia abbiano il sopravvento”.

Panella disse a suo tempo che le parole hanno significati molteplici e che il suo “gioco è proprio trascorrere e percorrere la parole e i sensi. Invito al ritrovamento di un tesoro che nessuno vuole trovare. E soprattutto sfuggo il senso unico, o meglio l’unico senso.”

Per otto anni collaborano insieme due mondi diversi, quello di Panella, “l’avanguardista stanco di se stesso: un avanguardista che non ha più bisogno di essere tale”. E il musicista geniale che vuole esplorare nuove strade della composizione partendo dalle parole fornitegli da un altro. Battisti è un entusiasta del lavoro e un perfezionista, non ha fatto come Mina che della sua scomparsa ha fatto un modo commerciale per apparire in voce con l’insistenza degli spot pubblicitari.

Pasquale Panella (1950) non ha scritto solo per Battisti.  E’ suo il “trottolino amoroso” di Minghi (Vattene amore) del Sanremo 1990, ha scritto per Enzo Carella (“Ho freddo in mano, ti tocco piano piano, ho freddo al pianto, mi faccio accanto accanto”), “Dindondio” di Zucchero (“Quindi non io, ma una canzone, ti parlerà. Un’emozione, cosa cos’è? È questa qua) “In amore” per Morandi e Barbara Cola (“Ti supererò, in amore andrò molto più lontano dove tu stupore sei, con le mani andrò dove sento il cuore che mi fa capire come stai aspettando me”).

DON GIOVANNI

(Francesco Buffoli) “Ciò che muta radicalmente è il contesto in cui la melodia viene “immersa”. E forse proprio in questo complesso equilibrio fra tradizione italiana e glaciali sonorità elettroniche si trova il segreto della bellezza di “Don Giovanni ”. Bellezza dovuta, in ogni caso, anche alle liriche, che suonano fantasiose, debordanti, prive di inibizioni, decisamente colte ed al contempo giocose e sbalorditive; Battisti stesso le definirà “incredibili”, rivelando di apprezzarne l’imprevedibilità, il carattere sfumato ed a tratti persino cervellotico, capace di prestarsi ad innumerevoli letture ed interpretazioni”.

“La canzone parte con un coinvolgente arrangiamento spagnoleggiante, con tanto di nacchere, una danza in tempo binario: pare di vedere Don Giovanni procedere lentamente verso di noi, al ritmo della musica, liberarsi di tutte le maschere che gli hanno messo, spogliarsi definitivamente di tutto. È lui l’attaccapanni della copertina.” (Massimo Villivà, Cronache babilonesi, al quale rimando per un’analisi di tutto l’album)

“Siamo lontani dal Don Giovanni di Mozart. Lì c’è il libertino che non si sottopone alle superstizioni borghesi, a costo dell’inferno, qui c’è di mezzo tutto il novecento con le sue delusioni. Don Giovanni è il centro vuoto dell’album, l’attaccapanni con niente altro appeso che una vecchia sciarpa d’artista.

Don Giovanni è l’ingannatore di chi cerca significati. Non è l’artista, è il suo fumista. Musica e parole coincidono in maniera sublime, come una maschera sotto una maschera”.
Don Giovanni è il personaggio leggendario che universalmente, persino nel linguaggio comune, è oggi l’immagine simbolica dell’individualista e della naturale attrazione dell’uomo verso la donna e verso l’amore, verso le voluttà della vita. E’ il grande voluttuoso in cui gli uomini istintivamente riconoscono qualche aspetto di sé medesimi.