RACCONTO DEL FUTURO ATTRAVERSO LE PIEGHE DEL PRESENTE

(Fabio Deotto, La lettura, Corsera, 26/1/2020) Alle 5.30 di una mattina qualunque, in un data center sull’8th avenue a Manhattan si sentono esplodere colpi di arma da fuoco. Cosa stia accadendo sarà chiaro solo nelle ore successive: internet ha smesso di funzionare. Ovunque. La catastrofe si dispiega con un effetto domino: la stragrande maggioranza delle attività amministrative e commerciali sono paralizzate, Wall Street interrompe le operazioni, le forze dell’ordine perdono la presa sulla città, cominciano i disordini e le rapine, le ambulanze faticano a raggiungere i luoghi dove sono richieste, fioriscono proteste spontanee in tutta la città, seguono sparatorie e arresti sommari.

Niente di tutto questo è successo; per ora. È solo la sintesi di uno dei capitoli di Il giorno in cui tutto finisce di Mike Pearl (il Saggiatore, 2019, traduzione di Andrea Libero Carbone), in cui l’autore americano si è calato in una prospettiva futura per raccontare potenziali sviluppi per tendenze che fermentano sotto la superficie della realtà presente. Utilizzando gli strumenti dell’analisi giornalistica, Pearl si concentra su diversi punti di fuga, dalla possibilità che il Regno Unito abolisca la monarchia a quella che gli antibiotici perdano completamente efficacia. Qualcuno la chiama «fantasaggistica», ma a ben vedere è più corretto usare il termine speculative nonfiction, dal momento che in questo tipo di approfondimenti non c’è quasi nulla di inventato. Parafrasando Primo Levi, Pearl non ha fatto altro che proiettare l’ombra del presente su una sponda futura.