Mingardi/La verità, vi prego, sul neoliberismo

Nel suo “La verità, vi prego, sul neoliberismo”(Marsilio, 2019), Alberto Mingardi,  direttore dell’Istituto Bruno Leoni, si mostra convinto che le politiche di liberalizzazione e di apertura dei mercati siano state una rarità. «Non c’è disastro, dall’incendio della Grenfell Tower a Londra al crollo del ponte Morandi a Genova — scrive Mingardi, che è anche docente di Storia del pensiero politico — che non sia colpa del neoliberismo». Si pensi all ’ultima crisi finanziaria frutto della insana deregulation bancaria e dell’eccesso di globalizzazione. Un fenomeno, quest’ultimo, assai complesso, non spiegabile solo con l’abolizione del Glass-Steagall Act e la conseguente troppa libertà lasciata alle banche d’affari. «La crisi venne dall’immobiliare e dalla proliferazione delle ipoteche a rischio». In sintesi, possiamo dire che se la libertà di mercato è usata male, non è una ragione per toglierla del tutto. È l’occasione per regolarla meglio.

(…) In realtà di Stato ce n’è ancora tanto e di mercato relativamente poco. La globalizzazione, spiega l’autore, non è come molti pensano un fenomeno recente, degli ultimi trent’anni, da quando è caduto il Muro di Berlino. «Negli Anni Novanta dell’Ottocento erano rimasti solo due Paesi a richiedere un passaporto a chi si presentava alla loro frontiera: la Russia e l’Impero ottomano». Mingardi si chiede quanto neoliberismo ci sia nella globalizzazione. Non tanto. Spiega le virtù della divisione internazionale del lavoro e del ricardiano vantaggio comparato che porta alla specializzazione e all’efficienza. Calcola i costi, indiretti e invisibili, del protezionismo, il cui dividendo politico è alto solo nel breve periodo. Nega che le politiche neoliberiste, quando mai siano state veramente perseguite, abbiano prodotto un indebolimento dello Stato sociale. In media nei Paesi Ocse la spesa sociale è cresciuta dal 16 per cento, rispetto al Pil (Prodotto interno lordo), del 1990 al 21 per cento del 2016.

La concorrenza rimane una chimera. L’Italia avrebbe l’obbligo, dal 2009, di produrre ogni anno una legge sulla concorrenza. L’ha fatta una volta sola il governo Renzi. E dopo 895 giorni è uscito dal Parlamento un mostro giuridico. «In un Paese come il nostro — scrive l’autore — nel quale gli stessi legislatori ignorano quante siano di preciso le leggi, parlare di neoliberismo o di eccesso di deregolamentazione è persino ridicolo». Un Paese più diseguale. Secondo Mingardi, soprattutto maledettamente immobile. Ricurvo su se stesso.

Anche l’euro è colpa o merito del neoliberismo? La moneta unica non piaceva a Milton Friedman. È stata una creatura dei poteri statali. Con un grande merito, nell’analisi liberale: l’indipendenza della banca centrale.(…) Se avessimo ancora la lira — che nei dieci anni precedenti all’euro perse la metà del proprio valore sul dollaro — oggi, con quel ritmo di svalutazione, un iPhone ci costerebbe tre volte di più. E così la benzina, i viaggi aerei. Ma la nostalgia, tratto irrazionale di questa fase della politica, ingigantisce i presunti vantaggi del passato e cancella il ricordo di miserie, malattie, guerre. Il ritorno alla tribù non nasconde solo il desiderio di vivere in un luogo sicuro. C’è il fastidio della complessità, che comporta sacrificio, studio, impegno.

Sorprende che un economista raffinato come Mingardi ricorra a uno chef dai modi spicci, come Antonino Cannavacciuolo, per spiegare il «calcolo economico» di Ludwig von Mises. Ma l’esempio è efficace. Nella «cucina da incubo», Cannavacciuolo riporta cuochi e gestori alle logiche del prezzo e della convenienza del consumatore. In Italia ci sono 200 mila ristoranti, il 45 per cento delle attività non sopravvive tre anni.  Una innovazione è sempre la conseguenza di un ambiente aperto, dello spirito di iniziativa dei singoli, dello scambio di saperi, del confronto continuo. Insomma, quel poco di liberismo che c’è, è in sintesi il pensiero finale dell’autore, «ha prodotto ricchezza e opportunità». E nel tornare indietro abbiamo molto da perdere. Ma purtroppo non ce ne accorgiamo. Per ora.