Canzonette/ Tanti parolieri e pochi musicisti

Non so se vi è mai capitato di vedere in tv il film-documentario (2013) ” La mia Thule”. Documenta la registrazione dell’ultimo album di Francesco Guccini con i musicisti di sempre nella sua casa d’infanzia, il Mulino Chichòn a Piadena. Ecco, vedendo quel film risulta abbastanza chiaro il modo di lavorare del cantautore, egli scrive i versi e poi i musicisti sono chiamati a comporre la colonna sonora del racconto, come faceva Rota con Fellini, Morricone con Leone. Parlerò qui del rapporto tra parolieri e musicisti in Italia ma una premessa è necessaria subito. Ci sono tantissimi amanti delle canzonette che amano soprattutto le parole, le imparano a memoria, le sviscerano. Ecco, io sono di un’altra parrocchia, delle parole m’importa poco e sono affascinato soltanto dalla musica. Ma ciò non toglie che nutro profondo rispetto per gli amanti dei testi, per chi li scrive, per chi li predilige. Sono soltanto due modi (o mondi) diversi di ascoltare musica. Cominciamo.

Nel 1971 Lucio Battisti, non a caso il più grande musicista che abbiamo avuto, scrisse un brano solo musicale. Il suo paroliere (che qualcuno chiama Poeta) fu interdetto: e allora io che ci sto a fare? Ecco che impose al genio un titolo lunghissimo: Seduto sotto un platano con una margherita in bocca guardando il fiume nero macchiato dalla schiuma bianca dei detersivi.  

Prendiamo l’archetipo della bifolk song italiana: L’italiano di Toto Cutugno. E’ chiaro come il sole che messosi in testa di fare l’inno dell’amor di patria, degli emigranti e dei nazionalisti, ha inventato una rima: fiero-vero. Lasciatemi cantare/ perchè ne vado fiero/ io sono un italiano/un italiano vero. Le parole, il contenuto è certamente venuto prima della musica. Come ha composto invece Gino Paoli “Sapore di mare”? Beh, in questo caso non si sa bene se aveva in testa un motivetto al quale ha poi aggiunto le parole oppure se, quasi certamente, tutta l’ideazione sia partita dal primo verso. Come ha fatto in “Senza fine”. La stessa cosa fa Vasco Rossi, il quale, anche lui, parte da uno slogan (C’è chi dice no; Siamo solo noi; Voglio una vita spericolata; Voglio trovare un senso) messo in musica. Al contrario, altri sei cantautori italiani, Guccini, Jovanotti, Ligabue, Dalla, De Andrè, Vecchioni, pongono preminente attenzione ai testi, prima della musica. Quasi sempre per questi logorroici nascono prima i versi e poi debbono trovare qualcuno che li rivesta. Poi c’è il più logorroico di tutti, Baglioni, che affastella parole e musica tanto da sembrare che canti sempre la stessa canzone. Tanto tempo fa succedeva che scritta la prima strofa, anche la seconda doveva avere la stessa metrica o almeno una metrica molto simile, per agevolare il compito del compositore, il quale scritta la musica della prima strofa aveva così già la melodia per tutte le altre. Oggi “tutto questo non c’è più” anche se la canzonetta dopo l’inciso (o ritornello) torna sui suoi passi ripetendo più volte lo schema. Anche se la musica nasce prima del testo c’è una sola regola da osservare per il paroliere, il testo dovrebbe contenere il “film” della canzone, una storia compiuta.

Le canzoni fino alla fine degli anni Cinquanta conservavano un legame autentico, tanto nel linguaggio quanto nell’esecuzione, con la tradizione popolare della romanza e del belcanto; inoltre parlavano solo d’amore. Punto. La canzone moderna ha, si può dire, mezzo secolo di vita: vale a dire che sono vivi e vegeti due dei migliori che l’hanno creata, ovvero Bob Dylan e Paul McCartney. Che cosa sia successo lo ha spiegato bene John Lennon nella celebre intervista del 1971 a «Rolling Stone»: «Ho cominciato a pensare alle mie emozioni, non so esattamente se la cosa è iniziata con I’m a Loser o con Hide Your Love Away, o giù di lì. Invece di proiettarmi in una situazione ho cercato di esprimere quello che provavo su me stesso […]. Credo sia stato Dylan ad aiutarmi a capire, non con una discussione o altro, ma solo ascoltando il suo lavoro [… Prima] non pensavo che le canzoni, le loro parole o altro, avessero alcuna profondità. Erano solo uno scherzo. Poi ho cominciato a essere me stesso nelle canzoni, scrivendole non oggettivamente ma soggettivamente». Ecco il punto di svolta, il cantautore parla di sè. In realtà Lennon non ha capito tutto di quel che fa Dylan, il quale ha avuto modo di spiegare:
« Le canzoni folk erano il mio modo di esplorare l’universo, erano fotografie e valevano più di qualsiasi cosa potessi dire. Conoscevo la sostanza interiore della cosa. La maggior parte dei performer volevano far arrivare se stessi, piuttosto che la canzone, a me quello non interessava. Con me, era far arrivare la canzone». 

BOB DYLAN Scrive Carlo Massarini: in un viaggio in Inghilterra nel gennaio del ’63 canta ’Blowin’ In The Wind’ per la prima volta in TV, alla BBC. L’ha scritta pochi mesi prima, prendendo la musica della prima strofa da uno spiritual, ’No More Auction Block For Me’, che è nel suo repertorio dal vivoo: «Niente più ceppo dell’asta per me/Dove son passati a migliaia…Niente più frusta per me», dice la canzone degli schiavi inglesi liberati che erano approdati in Canada, nella Nuova Scozia.  Dylan aveva già scritto delle canzoni topical, quali ’The Death Of Emmett Till’ o ’Ballad of Hollis Brown’, le trovate nel suo “Witmark Demos 1962-64”, tre anni di provini, ma qui l’approccio cambia, non si parla più di un fatto preciso, ma di qualcosa aperto a molte interpretazioni. Nel passaggio da particolare a universale, Dylan trova i semi della sua grandezza:

«Quante strade deve percorrere un uomo
Prima di essere chiamato uomo?
Su quanti mari deve volare una colomba bianca
Prima di dormire nella sabbia?
E quante volte devono volare le palle di cannone
Prima che siano proibite per sempre?

Sì, e per quanti anni deve esistere una montagna
Prima che sprofondi nel mare?
E quanti anni devono esistere certe persone
Prima che gli sia permesso di essere libere?
Sì, e quante volte deve girare la testa un uomo
E far finta che non veda nulla?

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento
La risposta sta soffiando nel vento…».

Quando la canzone è stata incisa e pubblicata a giugno sulla rivista di testi folk Sing Out!, Dylan l’ha commentata così: «Non c’è molto da dire su questa canzone se non che la risposta sta soffiando nel vento. Non è in un libro o in uno show televisivo o in un dibattito. È nel vento, soffia nel vento. Troppa gente hip mi sta dicendo dov’è, ma non ci credo. Dico che è nel vento, come un pezzo di carta senza sosta che prima o poi deve venire giù. Il problema è che nessuno la raccoglie così da mostrarla alla gente, e poi vola via di nuovo. Dico che alcuni dei più grandi criminali sono persone che girano la testa quando vedono il male e sanno che è il male. Io ho solo 21 anni e so che ci sono state troppe guerre. Voi che siete più vecchi dovreste saperlo meglio di me».

È una canzone emotiva, Dylan la canta con una voce da ragazzo ma già assolutamente autorevole. Una canzone che racconta verità che sono eterne con strofe che hanno dentro un senso di contemporaneità e di biblico insieme: nel Vecchio Testamento era scritto “O mortali, avete occhi per vedere ma non vedete, orecchie per sentire ma non sentite…”. Mavis Staples, la straordinaria cantante figlia di Pops Staples, il patriarca del family group degli Staple Singers, gruppo vocale leggenda del gospel oltreché attivista per i diritti civili degli afroamericani, un giorno dirà: «Quando ho sentito questa canzone la prima volta, ho pensato “chi è questa persona che scrive quante strade dovrà percorrere un uomo, prima che sia chiamato uomo”? perché questa è la storia di mio padre, ed è come un gospel, una canzone di ispirazione, di redenzione. Quest’uomo scrive parole di verità». 

Ma torniamo adesso alla nostra patria dei cantautori, perchè nella lingua italiana c’è un problema nel rapporto tra le parole e la musica. Questo problema lo ha spiegato De Andrè: «Scrivere canzoni in italiano  è difficile tecnicamente, perché le esigenze della metrica ti rendono necessaria una gran quantità di parole tronche, che in italiano non ci sono, o comunque non abbondano, a questo punto ti vedi costretto, per garantire la qualità estetica del verso, a cambiare addirittura il senso di quello che vuoi dire». Tronche e bisillabe, ed ecco a voi la canzone, come “Laura non c’è” di Nek.

Laura non c’è 
è andata via 
Laura non è più cosa mia 
e te che sei qua 
e mi chiedi perché 
l’amo se niente più mi da 
mi manca da spezzare il fiato 
fa male e non lo sa 
che non mi è mai passata 
Laura non c’è capisco che 
è stupido cercarla in te 
io sto da schifo 
credi e non lo vorrei 
stare con te 
e pensare a lei 
‘sta sera voglio stare acceso 
andiamocene di la 
a forza di pensare ho fuso

Se prendiamo la canzone “Nel sole” di Al Bano, nello spazio di due battute musicali il paroliere Vito Pallavicini ha avuto a disposizione sette sillabe ed ha scritto “ Quando il sole tornerà”; nello stesso spazio di tempo, nella canzone “7 e 40”, Lucio Battisti fornì a Mogol 18 sillabe e Mogol inventò: “Mi sono informato c’è un treno che parte alle sette e quaranta”. Più sono le sillabe a disposizione maggiore è la la possibilità di sprigionare la fantasia del paroliere. Nel 1977 Lucio Dalla pubblicò il suo ottavo album e scrisse in prima persona i testi (che nei tre album precedenti aveva lasciato al poeta Roberto Roversi). Il senso era: adesso il Poeta lo faccio io. Spiccava, in questo suo lp dedicato al mare una canzone lunghissima, Com’è profondo il mare: tante parole per poi finire con una rima con “mare”. Tutto qui. Quel testo ermetico, talvolta surreale, ma furbo, è utile richiamare per provare a dimostrare la caratteristica principale dei  cantautori italiani, la loro logorroicità. Giorni fa Walter Veltroni ha scritto un articolo su Repubblica (5 idee per evitare Weimar) il cui incipit è il seguente: Caro direttore, uso le parole. Furono le parole, quando ero ragazzo, a farmi innamorare della politica. Le parole con le quali Pavese descriveva la Resistenza, quelle di Giovanni XXIII che trasmettevano amore e compassione verso i deboli, quelle scritte dai martiri antifascisti, muratori o professori, che si rivolgevano alla moglie o alla mamma la notte prima di morire per la libertà degli altri, non la propria. Le parole dei pensatori che sottolineavo sui libri o quelle dei leader politici… Proprio questa predilezione per le parole, che accomuna intellettuali e politici italiani, è tipica dei cantautori italiani, tutti musicisti scarsi e presuntuosi parolai.  Bene, questa predilezione viene da lontano. Addirittura dai sofisti, filosofi che, nel bene e nel male, hanno giocato con le parole. Loro pensavano che se il mondo è sfuggente, se non esiste una realtà univoca, non ci restano che le parole per orientarci. La parola, talvolta insignificante, è in realtà un sovrano potentissimo, diceva Gorgia, una medicina o una droga, sostanze che possono salvare  oppure uccidere. Ecco, per i cantautori ogni canzonetta è come una bottiglia che contiene un “messaggio”: la bottiglia da sola non esprime nulla se non si leggono le parole. La musica è involucro, forma, sovrastruttura, sono le parole e il contenuto ad esprimere sentimenti poetici. I cantautori italiani, senza eccezione alcuna, prima di tutto intendono esser considerati al livello dei “poeti”, dei Penna, Montale, Quasimodo, e poi dei musicisti (v. “Scrivere una canzone” di G. Anastasi e A. Rapetti Mogol (Cheope)” Scritture creative, 2013). Non a caso quindi da 60 anni, ogni anno prima del festival di Sanremo, sui giornali tocca leggere: “Testi canzoni Sanremo 2019, di cosa parlano i brani in gara al Festival e anticipazioni sulle tematiche e sul significato degli inediti dei cantanti”. Ho citato Com’è profondo il mare come esempio di una canzone ermetica ed incomprensibile nel suo significato, tanto che gli interpreti nel tempo si sono sbizzarriti. Bene, se fosse stata scritta oggi e non nel 1977, i nostri critici in questa strofa vedrebbero magari addirittura un rimando al Pd.

E’ inutile, non c’è più lavoro
Non c’è più decoro
Dio o chi per lui
Sta cercando di dividerci
Di farci del male
Di farci annegare
Com’è profondo il mare
Com’è profondo il mare.

Ci sono canzoni bellissime con testi logorroici e altre bellissime (penso a “E se domani”) con poche parole. La bellezza dunque non sta nel testo, sta nell’impasto tra parole e musica e nell’arrangiamento, vale a dire la realizzazione con l’orchestra e con gli studi di registrazione. I Beatles, e stiamo parlando dei Beatles, se non avessero incontrato nel 1962 George Martin, produttore arrangiatore e confidente, non avrebbero in otto anni creato quel mondo nuovo di suoni che ha lasciato tutti affascinati (si pensi solo agli archi di Yesterday). Certo è che in Italia oggi, con la trap e il rap, è stato portata alle estreme conseguenze la nostra predilezione per le parole e i testi. Un breve ritornello musicale, magari un coretto, conclude un profluvio di parole che chiunque, a rima baciata e assonanze, è in grado di produrre. Guardate “Senza pensieri” di Rovazzi, un video con personaggi famosi, e migliaia di recensioni che parlano del video e del testo. La musica passa in secondo piano, basta che sia orecchiabile. Rovazzi ha dichiarato che le è venuta sotto la doccia. In realtà le musiche vengono tratte tutte da altre canzoni. Come il successo incredibile de “I watussi” che copiò “Osteria numero uno”. Il pop viene come Salvini dal popolo, che le ha già cantate tutte e vuole soltanto riascoltare  quello che già conosce.

Se nel 2021 volete sapere a che punto è la musica in tv, vi propongo il testo di un cantautore, Sangiovanni (Giovanni Damian, 18 anni) che ad Amici della De Filippi sta spopolando. E’, secondo me, molto bravo, con una voce riconoscibile, e ne sentiremo parlare. Il suo successo da disco di platino (oltre 50 mila copie vendute) si intitola “Lady”. Ecco un estratto del testo

Sei così bambina (così)
Ed io cosi maturo (così)
Che non può funzionare (no, no)

Ma c’ho bisogno di amore
Ed è così bello sì (così)
Mi fai tornare bimbo
Come quando mamma mi dava il bacino prima di andare a letto

E non è detto (no, no)
Siamo in un tunnel al buio
Senza visore notturno
Non ho paura di nulla
Ma Cupido mi aspetta per farmi uno scherzo di merda
Lanciarmi una freccia sul petto

E sarai per sempre
E sarai per sempre la mia lady ra, ra, ra, ra
Perché entri in punta di piedi ra, ra, ra, ra
E la mia vita è irregolare come le rockstar
Girando la città
Ma a luci spente capirò che sei la mia lady
Lady, lady, lady