FUBINI SPIEGA BENE IL NOSTRO PIL FERMO DA 25 ANNI

Hiroo Onoda fu luogotenente nipponico nella seconda guerra mondiale, poi però nel 1945 rifiutò l’idea che il conflitto fosse finito. Restò a combattere i suoi fantasmi su un’isola delle Filippine fino al 1974. Il mondo era andato avanti e lui se l’era perso. Si direbbe che l’Italia in questi anni sia catturata da una specie di sindrome di Onoda: anche noi siamo rimasti a combattere un nemico che non c’è più, l’austerità europea. Guardiamo nella banca dati della Commissione Ue alla situazione del bilancio al netto delle oscillazioni passeggere, delle misure temporanee e degli interessi sul debito (che tra l’altro fino al 2018 erano in calo). Questo zoccolo dei conti rivela che l’Italia in effetti ha vissuto nell’austerità, intesa come stretta di bilancio mentre l’economia è debole: fra il 2009 e il 2013 i governi di Silvio Berlusconi e poi soprattutto di Mario Monti costruirono un surplus nei conti dallo 0,6% al 4,1% del Prodotto lordo; fu doloroso, anche se chi oggi critica quella scelta dovrebbe anche spiegare come altrimenti avrebbe scongiurato un default del Paese dagli effetti ancora peggiori (all’epoca la Banca centrale europea non accettava il ruolo di prestatore di ultima istanza, arrivato solo con Mario Draghi nel 2012).

Da allora però di austerità non ce n’è più. Né in Italia né, in media, in Europa. L’avanzo primario strutturale, quello zoccolo dei conti, per il governo di Roma è sceso dal 4,1% all’1,2% del reddito nel 2019: abbiamo allentato il bilancio di tre punti, quasi 50 miliardi, riportandolo dove lo aveva lasciato Berlusconi. Anche l’area euro in media ha ammorbidito il suo quadro di bilancio e continua a farlo. Certo, non tutto è a posto. Questi metri non sono impeccabili, anzi. Manca poi un bilancio dell’euro per stabilizzare chi è colpito da una recessione. E Olivier Blanchard, ex capoeconomista del Fondo monetario internazionale, è convincente quando spiega che l’Europa dovrebbe anche rivedere il Patto di stabilità per incoraggiare gli investimenti in ricerca o istruzione pubblica (ma precisa: l’Italia, con il suo debito pubblico, «è un’altra storia»). Eppure la sostanza non cambia. Per l’Italia ormai è tempo di lasciare l’isoletta, perché è semplicemente falso che qualcuno pretenda ancora «austerità». Ciò che si chiede all’Italia è che pian piano si prenda cura dei conti pubblici, invece di metterli su una traiettoria esplosiva: dal 2020 il deficit e il debito stanno salendo davvero troppo in fretta. Piuttosto, se qualcosa colpisce parlando in privato con alcuni dei massimi responsabili europei, è il realismo. I cliché e i pregiudizi sul Paese sono scomparsi. Tutti capiscono che l’Italia nel complesso non ha grossi squilibri finanziari, ha un avanzo negli scambi con l’estero, finanzia il resto del mondo tanto quanto ne è finanziata e da un quarto di secolo il bilancio è in surplus prima di pagare gli interessi. Il problema che preoccupa nel resto d’Europa è che da un quarto di secolo l’Italia non cresce, anzi decresce se si conta la senescenza naturale degli edifici, delle infrastrutture, delle conoscenze. È un caso unico al mondo, ed è su questo che a Bruxelles, a Parigi, a Berlino o a Madrid si vorrebbe vedere un approccio più concreto in Italia. Perché la soluzione non sarà mai nel dare un po’ di ricostituente con un sussidio o uno sgravio fiscale pagato a debito. Il problema non è nei consumi, è nella produzione. Luigi Consiglio di Gea, un consulente, mostra che la Francia ha quasi la stessa produzione manifatturiera dell’Italia con 800 mila addetti in meno. Un addetto in Italia crea 60 mila euro di valore l’anno, in Francia di 73 mila, in Germania di 77 mila. Non perché gli italiani siano pigri, ma perché troppe imprese sono troppo piccole e restano tali perché combattono con i soliti nemici: corruzione, leggi incomprensibili e mutanti, burocrazia, giustizia lenta, energia cara, poco capitale proprio, tecnologia vecchia, rari manager professionali. Nel club europeo tutti sarebbero felici di vedere che questi problemi tornano nell’agenda del Paese. Lo direbbero anche ai leader politici di Roma, ma qui è l’altra grande anomalia: non è mai successo prima che chi comanda in un Paese europeo non abbia alcun contatto con gli altri leader del club e anzi si muova in una propria bolla, mai esposto alle idee e alla conoscenza umana degli altri; anche il greco Alexis Tsipras, pur litigando, aveva scambi costanti con i leader di Berlino o Parigi e ciò alla fine lo ha aiutato. In fondo l’idea della procedura sui conti dell’Italia nasce così: quando un Paese è su una traiettoria pericolosa, ma resta illeggibile, sembra più sicuro metterlo in gabbia. (Federico Fubini, articolo apparso sul Corsera, 15/6/2019)